martedì 16 giugno 2009

LA FAVOLA AL CONTRARIO (segue)?

La favola al contrario
Rampollo di un casato nobiliare, che ogni cosa m’era familiare, ogni fanciulla sognava d’essermi regina, ogni tristezza cancellata con la moneta della sicurezza, ogni prigione aperta con la chiave del potere, ogni incertezza affogata nella carezza dell’oblio, ogni fiore o profumo era nel bosco del mio sconfinato podere, ogni colore ed aquilone nel cielo sopra il mio prato, giocava a rompicollo fino a render satollo il mio sguardo annoiato, ogni grotta o “cacciata” mi conduceva ad un tesoro, ogni sentiero portava al mio maniero, ogni strada, al bordo, una fata ad indicarmi il sorriso, nelle stalle i miei cavalli bianchi, alti e forti come querce, mangiavano meglio dei beceri bifolchi, che li accudivano e ai loro calci si zittivano per paura, che in qualche modo, io potessi saper di loro e lasciarli senza cena, loro, i suoi figli e le loro vecchie madri, ogni passante sapeva dove nacqui e con inchini buffi, ricoprivano la melma del sentiero, con stracci di mantelli ch’io non la vedessi. Il vento stesso, si prodigava d’estate, a non farmi soffrir calura, e l’inverno le mie greggi, si prodigavano con gli scardassieri ed i tessitori, a produrmi lana buona e nuovi mantelli per proteggermi dal gelo, ogni lampo dei temporali, riduceva il buio del mio casale, illuminando le alte torce di rame, collegate a scintille, al mio passaggio, il ponte levatoio s’apriva al mio tacito ed inconfondibile passaggio, al fine di non sozzare la mia cavalcatura con le sanguisughe che infestavano gli acquitrini. Così, fosse notte, giorno, inverno o estate, mi dirigevo con il cavallo, fin nella mia stanza da letto, crollavo nel materasso e solo rimanevo a contemplare l’infelicità dei miei pensieri.
Questa mia vita, ripetevo amareggiato dalla sua monotonia, fino ad un ieri. Incontrato un menestrello, una specie di musicante, ebbi noncurante passione pel temporale che infracidiva la sua chitarra, lo tirai su d’istinto, quasi fosse la sua forza a darmi l’invito, e cavalcando, lo condussi nel mio letto asciutto.
Da quella notte cambiò tutto.
Poche parole e potevo cacciarlo a cinghiate,
invece, attirato delle strane cicatrici che aveva sul corpo e sulle braccia, m’interessai dei suoi racconti.

Cominciò senza premesse: “Questo mondo sta morendo”
Dormì tutta la notte ed il giorno, senza mangiare ne lavarsi, tutt’un sonno, ed io ad aspettare. Quasi l’ammazzo, poi ci ripenso e l’aspetto, seduto ai piè del letto, talmente incuriosito da quella strane forme disegnate a fuoco nella sua pelle. Passai la notte a fare strane congetture, ammaliato dalle sue ferite, che pure qualcosa avea da dire, che giammai ebbi a meravigliarmi, come per la sua strana noncuranza di dormire in una stanza, che certo e presto sarebbe divenuta la sua condanna. Io potevo parimenti, render ricco e libero, o schiavo e morto. E in questa attesa vidi, nei miei pensieri, me stesso. La sua frase mi si ripeteva nella mente. Verso l’alba ebbi un sogno in dormiveglia, vidi una donna, correva nei miei pressi senza raggiungermi mai, poi mi svegliai. Orribile silenzio della notte, quante volte mi hai fatto compagnia? Eppure quella era disuguale, terribilmente immateriale. Sapevo, senza dirlo, che dipendeva del suo risveglio. Lo guardavo bofonchiare, forse sognare, satollo di stanchezza e strada, m’avvicino con l’orecchio, che parve aveva sussurrato, che : “ CHE FAI!”, m’urlò dentro l’orecchio. Saltai tanto e tanto per lo spavento, che infilai il mio corpo bello e buono, nello spadone riposto fuori dal fodero, e vidi la mia vita dimenarsi, “ECCO” urlo! “TE L’AVEVO DETTO!” “QUESTO TUO MONDO STA’ MORENDO!”

(danijel) APPUNTO,

SEGUE.

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